sabato 3 dicembre 2011

I nove finalisti dell'edizione 2011

Ecco i nove racconti finalisti della prima gloriosa edizione (2011) del concorso per Il Racconto Più Brutto. Sono ordinati secondo la classifica stabilita dai voti del pubblico presente in sala durante la kermesse di premiazione, tenutasi all'Hula Hoop Club il 24 febbraio 2011. Buona lettura:


SECONDO CLASSIFICATO


Ecco un racconto degno di un termine molto abusato nelle quarte di copertina di opere di autori che in realtà hanno seri problemi di dislessia:
pirotecnico. In questo caso specifico chiariamo però che si tratta di un eufemismo per "mentecatto".
 
Guerrieri e Tagliamonte

Bachata
(Quando Larry Book-ovski  incontra l’ Adagnese T.)

Quella volta che ballammo in due ma sembrava fossimo tre perchè tu mi piccicavi i piedi ubriaca di vodka addolcito da una pasticchetta di estasy ..oh Lee…


Larry approntò un pas de deux. Lee, presa in estemporanea, subì un contraccolpo improvviso al basso stomaco proprio dove il duodeno s'incontra - non salutandolo - con il crasso. L'effetto fu dirompente, un etna di zampillosa alcolica miscela di 42 gradi di materia verde mista a scampoli, qualità presa in saldo, di amaro bonekamp ingurgitata durante il petit dejeuneur delle 2,37 accompagnata da fiori di zucca fritta si riversò autoritaria sul " resto del carlino” che, timidamente, era appena entrato in ballo invitando nella pista la dantesca Beatrice delle sue brame, tale Adagnese Tirelli, marchesata da poco. Larry, attonito, si versò un’acqua tonica.
Non potè far altro, per proteggerla, per distogliere l'attenzione piombata improvvisa su di lei, che srotolare il suo pistacchio ardito dalla patta dei calzoni e sfontanare di acide urine il parquet della pista da s-ballo che non sarebbe mai più, mai più, stata la stessa…
Schic, schac..schicchete…schacchete…sgiuuum…. sgiaaam… buuumete!  L’Adagnese andò lunga come una palla da bowling troppo liscia, perché anche le palle da bowling, come diceva la buonanima di nonno Arcadio, non sono più fatte con i materiali di una volta. Anche la sua eterna rivale, Lee - mica una neo marchesata come lei, no -  una sgualdrina furba come una volpe, se ne stava sciatta e sbracata a cosce larghe rondando gli occhi a un metro da lei, messa a terra da un colpo basso sferratole da Larry: dimostrazione che, come dice un proverbio, l’amore è cieco ma la sfiga ci vede benissimo. L’Adagnese aveva assistito all’incidente con soddisfazione, battendo le manone incallate da anni di lavori di varechinici lavori domestici. Amava Larry, lo Amava con la A maiuscola e le altre lettere minuscole - per non esagerare - anche se oggi si era resa conto che anche Larry, come le palle da bowling e come la primavera, non era più quello di una volta. Era diventato un vecchio biascicone, debole di reni come un cammello incontinente. L’Adagnese si rialzò a fatica, guardandosi intorno per vedere su cosa fosse scivolata. Intorno a lei, un liquido maleodorante color paglierino…
Il vomito di Lee e l’urina di Larry… un..tuttuno! un fottuto attimotuttuno! tuttantratto tutto vacillò: i tavolini fino ad allora intatti, tastarono lo scompiglio e la rissa tintasi di tette tarate, di testosteroni tarati, di tanga alterni a turgidi torelli in via di monta! Adagnese, fino ad allora contenuta, allentò l'edipo e rispose all'incontinenza del suo Larry  spandendo anche lei a terra l’alcool trangugiato solo per imitare Lee. Un cameriere alzò lo sguardo e abbassò la bocca, o quantomeno a lui così sembrò. Una guardarobbista lasciò sguarnita la robba che fu preda dei piu' veloci. Anche alcuni gay…battereno cassa! Ma per lo più battereno, e non solo cassa! che sfiga però per Larry! Per una volta, la prima volta che il suo edipo lo apriva con suo stupore ad un improvviso desiderio… si ricordò di non essersi mai drogato. Che sfiga, Larry, con tutto quel…po’po’..in mostra.
Non le avevano insegnato questo alla scuola di taglio e cucito, a fare le asole sì, le maniche a raglan, sì - anche se con quelle aveva avuto sempre difficoltà - non questo. Non certo ad ubriacarsi in una bettola di infimo ordine e a vomitare drinks mal digeriti sulle costose scarpe di camoscio tacco 6. Così dunque l’Adagnese ricambiava i sacrifici degli amati genitori, lei che era sempre stata la luce dei loro occhi mezzi ciechi, il suono delle loro orecchie mezze sorde. Che figlia ingrata! Chissà che avrebbero pensato di lei, chissà se da lassù dov’erano potevano vederla, ora, proprio ora, sì, mentre stringeva, stringeva, stringeva la sciarpa amaranto attorno al collo sottile di quella puttanella di Lee. Fatta, pensò, mentre meticolosamente riponeva la sciarpa sulla sedia, vicino alla borsa. Adesso Larry, finalmente, era tutto suo.
 


 
TERZO CLASSIFICATO

Un racconto completamente inutile in cui animali antropomorfizzati e atmosfere bucoliche la fanno da protagonisti. Incredibile fino a che punto certi autori siano capaci di dare per scontata l'attenzione dei lettori.

Leonardo Battisti

Il Riccio

Gli umani usano chiamare “riserva naturale” o “parco nazionale” quei piccoli angoli di bosco che il loro cuore o il loro portafoglio, salva dal cemento e dall’asfalto.
In uno di questi parchi, un giorno d’autunno, la vita trascorreva tranquilla, regolare come il corso di un torrente che non conosce né la secca né la piena: la volpe astuta divorava il pranzetto rubato agli ultimi sciocchi turisti che erano passati, il buon vecchio lupo si specchiava in ogni stagno cercando di capire cos’era del suo aspetto che spaventava tanto gli uomini, la vanitosa civetta saltava di pino in pino per farsi notare da qualunque visitatore, il serpente viscido si aggirava affamato tra le foglie secche e le grandi radici degli alberi, mentre l’orso oziava stanco delle mille fatiche che non aveva mai compiuto…
La natura, insomma, si beava della sua perfezione, quella che gli umani tentavano di contaminare ormai da secoli con il loro stupido egoismo, e si avviava verso la stagione più fredda e buia, sicura di rinascere col sole nuovo e sorridente della prossima primavera. Una sola tra le creature del bosco, sembrava tagliata fuori dal banchetto della vita, il riccio. Si aggirava col capo basso tra gli arbusti morenti, costeggiando i sentieri artificiali che gli umani avevano costruito fra gli alberi e non si curava di nulla se non dei suoi pensieri.
Ricordava un evento della sua infanzia, quando un bimbo venuto con i genitori ad ammirare le meraviglie del parco, tentò di afferrarlo con la manina, ma appena toccò i suoi aculei, si ferì ed iniziò ad uscir sangue dalle sue paffute ditine. Il bimbo iniziò a piangere e subito la madre venne a medicarlo e a maledire il riccio che si trovava lì per caso.
Il pianto del bimbo era rimasto forte e chiaro nella memoria e ancora rimbombava nelle orecchie di quel povero animale come il rumore di quegli enormi uccelli metallici che gli uomini usano per spegnere gli incendi nel parco. Lui non voleva fargli male, non l’aveva fatto intenzionalmente, ma come spiegarlo al bimbo che piangeva o alla mamma che lo curava infastidita?!
Improvvisamente le grida della volpe interruppero i pensieri del riccio che iniziò a correre nella direzione da dove proveniva il lamento: i denti di ferro lasciati da qualche bracconiere le avevano morso la zampa e non volevano mollare la presa. Il riccio provò ad aprire le fauci argentate con tutta la sua forza ma nel farlo, infilzò con i suoi aculei la zampa già ferita della volpe che iniziò a gridare ancora più forte. Il lamento, per fortuna, fu udito da dei visitatori che passeggiavano non molto lontano da lì; questi chiamarono il guardia-bosco che presto venne e liberò la volpe.
Il riccio riprese, così, la strada e i suoi pensieri da dove li aveva interrotti, ma ora, dopo quel brutto incidente con la volpe, erano ancora più brutti di prima.
Continuò a camminare ancora a lungo finché non incontrò una graziosa fanciulla della sua specie. Lei era bellissima e sorridente e quando lo vide così triste, gli chiese cosa gli era accaduto. Il riccio ebbe paura di rispondere, di rivelare tutti i timori che lo rendevano triste perché capiva che forse quei timori non avevano ragione di esistere, così inventò una scusa; disse che la volpe lo aveva preso in giro per il suo aspetto e che lui ci era rimasto molto male. Naturalmente era solo una scusa, ma funzionò e ruppe la loro timidezza.
Iniziarono a passeggiare insieme parlando del più e del meno, scambiandosi complimenti e scoprendo lentamente le tante cose in comune che avevano. Poi presero a rincorrersi e a giocare felici tra i profumi della natura, e i loro baci scoccavano belli e puri in un’aria autunnale che, stranamente, non poteva sembrare essere più primaverile.
Purtroppo, però, proprio mentre correvano incontro per abbracciarsi e baciarsi ancora una volta, il riccio inciampò e cadde di schiena addosso alla sua amata trafiggendola con gli aculei. Quella dolce creatura, che tanto sole aveva portato tra le nubi d’ottobre, si spense in fretta e il riccio rimase solo a piangere disperato a fianco al corpicino di lei, ormai freddo e senza vita.
Poi lasciò che la natura si riprendesse quel dolce essere nel suo grembo e riniziò a camminare: incontrò il serpente e gli si offrì come pasto ma il serpente rifiutò perché aveva paura di restare infilzato dagli aculei, poi incontrò l’orso e gli chiese di essere schiacciato dalla sua grande zampa ma l’orso rifiutò perché temeva di restare ferito anche lui. Nessuno, insomma, voleva dare al povero riccio, quella pace estrema che chiedeva, perciò decise di chiudersi nel guscio e di restarci per sempre, così non avrebbe fatto più del male.
Restò rintanato nella sua corazza tre giorni e tre notti, ma i suoi giorni erano dilatati all’infinito dalla solitudine, e le sue notti erano piene di incubi e di ricordi del sangue del bimbo, della volpe, della sua amata che egli stesso aveva fatto scorrere.
In una di quelle notti, in cui la luna si mostrava con un sottile spicchio sfoggiando un beffardo sorriso, il riccio si incamminò verso i confini del parco, scavò al di sotto della rete che lo delimitava e giunse al di fuori di quella che era da sempre stata la sua casa. Continuò a camminare per molte ore finché non trovò una strada e, piazzatosi in mezzo ad essa, si rinchiuse nella sua corazza ed aspettò in silenzio che passasse qualche macchina.



QUARTO CLASSIFICATO

Patetismo esistenzial-filosofico. Lettera di un giovane che tenta di darsi un tono con un uso della dialettica e della logica scarsamente efficace e ampiamente risibile. Cosa non si è capaci di ingegnare per una scopata.
 
Carlo Sperduti

Lettera consegnata a mano a una ragazza

Ti rendi conto che questo momento è già passato, che già non esiste più?
Ti rendi conto che tutto ciò che abbiamo fatto non esiste e non esisterà?
Ti rendi conto che esistere e non esistere è la stessa cosa? (non due cose uguali, la stessa cosa).
Quanto pensi che valga lo sprecare attimi di fronte a tutto questo?
Paradossalmente tantissimo, e la mia tortura è quella di non poterne fare a meno. Vorrei viverli, i miei attimi, ma a impedirmelo è il mio stesso pensiero. Non lo controllo, mi mette in testa miliardi di cose discordanti e contraddittorie, mi porta da un estremo all’altro, mi combatte negli occhi, nelle orecchie, nel mio corpo per intero. Capisci perché è troppo piccolo?
È questo il fastidio che provo verso tutto: qualsiasi cosa si mette sulla strada del mio pensiero e tenta di ostacolarla.
Lui respinge, mangia qualsiasi cosa che gli si muova davanti (siano esse parole, gesti o quant’altro). È lui che scrive in questo momento, perché la carta è l’unica cosa che gli dia spazio sufficiente (non soddisfacente, ovviamente) per manifestarsi liberamente.
Impazzisce a contatto con la musica, con la parola stampata e corre verso i corpi abbandonati all’istinto. Già non si controlla. Sono onde, fuochi! È vita che non esce, è vita sola.
Vuole amare ma non gliene danno modo, ha mille mani con infinite dita, mi parla in immagini, le trasforma in parole, in sensazioni, in desideri, in morte apparente. Tenta di uscire dagli occhi ma non trova lacrime neanche di fronte al mare.
Mi uccide, angelo, mi uccide.
E poi i ricordi ininterrotti e l’inesistenza delle cose ricordate.



QUINTO CLASSIFICATO

Un concentrato di cliché appiccicato con lo sputo a un'ambientazione fantascientifica: una donna che cerca vendetta e si innamora dell'uomo che doveva uccidere. Idea già sentita, ma... qualcuno l'aveva mai ambientata sulla Terza Luna di Nettuno? Asimov ci fa una pippa.
 
Gianpaolo Castellano

Storia Futura

Ora erano le voci di tutti e due ad avere la tonalità calda di chi si abbandona al flusso dei ricordi, davanti ad un camino che scoppietta, con in mano un bicchiere di brandy e fuori la neve che cade sulle montagne. Iniziarono a parlare, a rievocare il passato di 20 e più anni prima, le notti pazze, le corse al buio, le risate. I ricordi si seguivano uno dietro l'altro, e quando la memoria di uno dei due vacillava ci pensava l'altro a rinforzare le sensazioni, a confermare le impressioni, ad inventare la battuta per rimediare a due decenni di oblio. Ad un certo punto Kit si alzò dal divano, aprì un armadio, tirò fuori un oggetto e lo osservò bene.
Ti ricordi di questa bottiglia, Magda? Non ho mai voluto buttarla via, ed ora ho capito perché non l'ho mai fatto -
Era una bottiglia di liquore, un regalo di Magda, che Kit e Patrick avevano scolato alla salute di lei e di Elena, quando Elena affollava i sogni e le speranza di Kit. Per Kit era stato il ricordo di un periodo della sua vita fatto di amicizie e di amori, di nottate passate a cantare ed a parlare, di fumate sul balcone di casa, di cori alle stelle, di sguardi carichi di parole e di desideri. Ed ora, in quella bottiglia, Kit vedeva riflesse tutte queste cose e, sopra a tutto, il volto di Patrick, che si confondeva con il suo e quello di Magda. In quel momento sentì un fiato leggero sul collo, e si girò: Magda era di fronte a lui, con le sue movenze feline era uscita dalla centrale di controllo inavvertita e lo aveva praticamente colto di sorpresa, alle spalle. Kit aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono; Magda sorrideva, mentre dolcemente gli staccava la bottiglia dalle mani, la riponeva sul tavolo e lentamente lo sospingeva verso il divano. Gli occhi di lei erano stanchi, ma in essi brillava ancora il fuoco indemoniato che Kit ben ricordava, un fuoco al quale pochi avevano saputo replicare ed avevano preferito immaginare Magda come una donna impossibile, intrattabile, sempre pronta a mordere selvaggiamente per vendicarsi di qualche oscuro torto subito.
Cercavo qualcosa oggi qui, ed ora l'ho trovato -
Disse lei
Volevo vedere cosa era rimasto vivo nel cuore di un certo amico -
E lei, Magda, divenne una cateratta di parole, e Kit beveva a quella fonte che poco alla volta lo rinvigoriva e gli spazzava di dosso 20 anni di cinismo, di ambizioni, di voglia di dimenticare, di rimorsi.
Non ci volevo credere all'inizio, che tu mi avessi abbandonata, lasciata sola nel mio dolore. Poi ci fu la rabbia, la voglia di vendicare la morte di Patrick che tu avevi ucciso. Sparii, come te, mi trovai un uomo potente, attraverso il quale avrei potuto ottenere la mia vendetta. Lui era un trafficante di tecnologie un po' particolari, non importa che tu sappia chi fosse, perché ora è morto vittima della sua stessa ingordigia, ed io l'ho aiutato a ben morire. Ti ho rintracciato, ti ho spiato, per entrare qui ho corrotto molte persone, anche coloro che tu consideri tuoi amici ma che ti hanno venduto ad una donna misteriosa, che agisce nell'ombra. Non è la prima volta che entro qui, ma tu non te ne sei mai accorto. Ma mentre ti spiavo ho capito che la tua morte per mano mia non mi sarebbe servita, anche se forse sarebbe stato ciò che desideravi.
Pausa, sorriso di lei
Vedi, Kit, alla fine l'ho capito: dopo la missione Pegasus non mi sono uccisa soltanto per poterti a mia volta uccidere un giorno. Poi, quando avrei potuto farlo tramite uno qualsiasi dei miei servi, pagandolo o rendendolo felice per una notte, ho voluto sapere di più di te, e ti ho osservato. Poi ho voluto entrare qui, nella tua fortezza privata. Allora ho davvero compreso che sei stato tu la ragione di vita dei miei ultimi venti anni, e sei stato tu a tenere in vita Patrick fino ad oggi. Proprio oggi, adesso, è venuto il momento di seppellire assieme Patrick. Non è tardi, non pensi?
Kit annuì. Anche lui aveva capito. Lassù, sulla terza luna di Nettuno, Kalì la Nera, finalmente l'equipaggio della navicella di ricerca della Pegasus poteva riposare in pace, per l'eternità.




SESTO CLASSIFICATO

Fulgido esempio di autore che sfrutta un proprio personaggio per spararsi le pose di maschio irresistibile con le lettrici: lui che tenta di respingere galantemente le appassionate avances di una donna insaziabile... Come diceva l'Ispettore Ingravallo: 'STIFFEMMENE!!!
 
Lorenzo De Bor

Tra le braccia di un polipo

Tutti, in ogni modo non avevano intenzione di raccogliere le proprie palle e rendersi utili. Certo è meglio ingurgitare pomodoro e funghi con mozzarella, schifosamente pendente dalle labbra, che dare un contributo d’umanità. Mi feci avanti. In questi momenti mi si apre il Quore con la C circoncisa e mi esce il francescano latente, e mi ritrovo guarda caso sempre incasinato.
Aiutato dalla signora Anna e dal cameriere, riusciamo a portare finalmente dopo un lungo travaglio a trascinare la svenuta nel proprio appartamento a pochi isolati dalla pizzeria. Nell’arco di un ora i miei due samaritani sfrecciano via lasciandomi solo con la figlia di Bacco. Realizzo. CHE FA CC IO…! Controllo ogni suo movimento, credo che si sia ripresa; così per rompere il ghiaccio e rinfrescarci la mente domando. – Va meglio? – avevo voglia di bere, non è il caso di girare il coltello nella piaga, e non fa una piega visto che poco prima mi ha vomitato sull’uccello. Realizzo ad intermittenza come una radio… Piange singhiozzando. – Mia madre sta per morire, dammi una MOMENTS per favore, MIA madre sta morendo, sta morendo… morirà. – Sono schifosamente patetico e pure stronzo in questi moments. – La mia è morta e sono ancora sobrio. – che cazzo dico. Mi rendo utile, l’adagio delicatamente nel grande letto e piano piano le tolgo i vestiti quelli più ingombranti, anche perché potrei rischiare d’essere frainteso e fare la parte del marpione, oddio potrei anche… Bhè controllati Lorenz. Come previsto si eccita, mi trascina verso di lei ansima oddio no… si… la sua mano s’infila dentro i miei pantaloni, panico. – Che fai bimba! –
Oh si, ti voglio ti voglio, baciami.
Non posso amore, mi aspettano.
Sei carino, che morbidi i tuoi capelli.
Grazie.
Intanto guardavo per la stanza, spaventato. Ad ogni minimo rumore sospetto, tremavo come una foglia secca senza speranze. Da qualche angolo della casa poteva balzar fuori un potenziale amante. Diavolo boia chi tiene in mano quella pistola puntata sulla mia fronte, spero che non abbiano già aperto la caccia agli uccelli, e io sarei la vittima designata, ma perché proprio a me! Così avvinghiato tra le sue cosce e in piena confusione mentale, lui l’amante immaginario mi scaraventa un colpo di pistola in fronte, mi agito come un deficiente sopra di lei, il sangue mi va alla testa, il cuore sta per esplodere, e vengo… vengo tutto mosso e muoio. Ecco, già li vedo i titoli sul giornale a caratteri cubitali. Omicidio passionale, teatro di un orrendo epilogo… un uomo di trent’anni freddato con un colpo di pistola, la donna che si trovava con lui è ancora sotto shoc. All’arrivo degli agenti urlava – L’ha ucciso… l’ha ucciso – Una scena raccapricciante, i sospetti ora ricadono sulla donna.

 


 
SETTIMO CLASSIFICATO

In questo sublime esempio di "un'idea pseudo-intelligente a caso su cui scrivere", non ci si accontenta di scomodare inutilmente Platone, ma si mettono per l'ennesima volta in bocca a Gesù Cristo parole a vanvera (Bulgakov in confronto un povero pivello). Su Beppe Grillo invece ok per la vanvera, e forse per questo il racconto si è piazzato così male in classifica.

Daniela Rindi

Apologia di Beppe
Dall'"Apologia di Socrate" (Platone)

L'atto di accusa è pressappoco così: Beppe Grillo è un criminale perché corrompe i giovani e non crede in Dio, padre dell'accusatore principale.

Beppe: Questa dunque è l'accusa: esaminiamola punto per punto. Dice che sono colpevole perché corrompo i giovani. Ma io dico, cittadini italiani, che è Gesù a commettere ingiustizia, perché fa lo spiritoso sulle cose serie, e con leggerezza porta in tribunale le persone o fingendo di preoccuparsi e darsi pena di faccende di cui non s'è mai curato per niente. Le cose stanno così, e cercherò di dimostrarlo anche a voi.
Vieni qui, Gesù, e dimmi: non consideri della massima importanza che i giovani siano quanto possibile migliori?

Gesù:  Io sì.

Beppe:  Dillo allora a queste persone: chi li rende migliori? Evidentemente lo sai, visto che ti interessa tanto. Hai trovato chi li corrompe, me, come tu dici, e per questo mi conduci davanti a questi giudici e mi accusi. Su, di' dunque chi li rende migliori, rivelagli chi è. Lo vedi, Gesù, che stai zitto e non sai che dire? Non ti sembra vergognoso? Non ti sembra un prova sufficiente di quello che dico io, e cioè che dei giovani non te n'è mai importato nulla? Ma dimmi, caro, chi li rende migliori?

Gesù:  I costumi e le leggi .

Beppe: Ma non ti chiedo questo, mio caro amico, bensì proprio chi è che conosce più d’ogni altro le leggi di cui tu parli.

Gesù:  Loro, Beppe Grillo, i giudici..

Beppe: Come dici, Gesù? I giudici sono capaci di educare i giovani e di renderli migliori?

Gesù: Certamente.

Beppe:  Proprio tutti, oppure alcuni sì e altri no?

Gesù:  Proprio tutti.

Beppe: Ben detto, Maremma maiala! Quanta gente capace di fare gli educatori! E tutto il pubblico qui presente, è anch’esso capace di renderli migliori, o no?

Gesù: Si', anche questi.

Beppe:  Ed anche i componenti del Consiglio?

Gesù:  Anche loro.

Beppe:  Ma, Gesù, non vorrai certo escludere i membri dei partiti, non è vero? Oppure anch'essi, tutti insieme, li rendono migliori?

Gesù:  Anch'essi.

Beppe:  Ma allora. a quanto pare, tutti gli Italiani li rendono migliori, tranne me. Sono soltanto io a corromperli. E' così che dici?

Gesù:  Affermo proprio questo, con forza.

Beppe: Mi hai condannato a una gran disgrazia davvero. Ma rispondimi: ti sembra così nel caso dei parlamentari condannati in via definitiva, che a migliorarli siano tutti gli uomini, e uno solo a rovinarli? Oppure, al contrario, a saperli migliorare sono uno solo o pochissimi gli integri esperti di morale politica - mentre la maggioranza, se ha a che fare con i parlamentari e li usa, li danneggia? Non è così, Gesù, per i parlamentari e tutti gli altri politici? Certamente è così, lo diciate o no tu e tuo padre. Perché, per quanto riguarda i giovani, sarebbe davvero una bella fortuna che uno solo li corrompesse e tutti gli altri  fossero loro d'aiuto.  No Gesù, troppo chiaramente fai vedere che non ti sei curato mai dei giovani e dimostri bene la tua assoluta noncuranza per ciò per cui mi hai trascinato davanti al tribunale. Basta! Parlamento pulito. Chi è stato condannato in via definitiva non deve più sedere in Parlamento. E se la legge lo consente, va cambiata la legge. Chiedo che i condannati in via definitiva non rappresentino più i cittadini in Parlamento, a partire da quello europeo.…altro che corruzione dei giovani!



OTTAVO CLASSIFICATO

I luoghi comuni e la retorica dell'amore romantico (notare quel mirabile "vestito di eternità" dell'incipit). Un finale a sorpresa francamente incomprensibile se non forzando di molto le regole basilari della logica. Susanna Tamaro ha i giorni contati.
 
Roberta Angeloni

La fontana del Bernini

Sei tu, mio dolcissimo amore, che incontrai vestito di eternità sul ponte che portava in piazza. Ceruleo eri, amore mio, impacciato nelle movenze.
Alzai d’improvviso gli occhi al cielo, e mi accorsi che scendeva lieve un mucchio di fiocchi nevosi, credo tutti sulla tua testa. Gridasti di dolore, ma senza suoni. Da lì mi accorsi che forse eri bisognoso di me, del mio calore, del mio abbraccio rassicurante, affinché non affondasse quel poco d’amore che ci restava.
Ti presi la mano, e lentamente ci avviammo verso casa. Avevi lo sguardo basso, io invece avanti. Un rivolo di saliva scendeva dal lato destro delle tue labbra carnose, ma forse perché avevi fame.
“Fermiamoci in questo bar” Dissi piano, invitandoti a sederti davanti al tavolinetto rotondo e un po’ sgangherato sul marciapiede.
“Ho freddo” dicesti. E tremavi.
“ Ordiniamo un thè caldo”, proposi dolcemente.
“Si”, rispondesti, accogliendo l’invito. Ma forse era un “si” di convenienza, me ne resi conto, allora ti presi per un braccio e ti trascinai praticamente fino al grande portone che imponente si ergeva dinanzi alla fontana del Bernini. Bella, la fontana del Bernini. Era come se l’avessi vista per la prima volta, un po’ come te.
Ma non me ne innamorai.
Ravvisai sul tuo volto intriso di aneliti antichi e bizzarri, anche un po’ grotteschi, un fremito di gelosia. Mi rattristai, come potevi pensare che mi sarei innamorata di una fontana? Che essa si sarebbe sostituita nel mio cuore, dove tu, solo tu, soltanto tu, unicamente tu, avevi preso posto eterno?
Certe volte non ti capisco.
Ma torniamo a noi.
Salimmo le scale, io a due a due, tu una alla volta, non ce la facevi, questo lo sapevo, ma non mi andava di aspettarti. Avevo fretta di infilare la chiave nella toppa, di girarla, di aprire con veemenza la porta di casa, quella casa che avevamo arredato con tanta parsimonia, quattro anni or sono, prima che io partissi per Budapest (non ti ho  mai spiegato perché stavo là e non altrove).
Si, avevo fretta, perché ti avevo preparato un pacco-sorpresa sul copriletto damascato con le frange un po’ cadenti di nonna Luisa, quella simpatica vecchietta che tu ti ostinavi ancora a chiamare “signora”, quando lei insistentemente ti aveva chiesto di chiamarla “Nonna”.
Ti precedetti, ero lì, in camera, ad aspettarti.
Con passo lento apparisti sulla soglia, vedesti il pacco dono sul letto, ti precipitasti come un orso famelico sul copriletto di nonna Luisa, cominciasti a lacerare la carta preziosa, che io invece in cuor mio avevo già preventivato di riciclare, da brava ambientalista qual ero.
Pensando però alla tua ingiustificata e ridicola gelosia di pochi minuti  fa, mi resi conto che anche questa volta non avevo centrato il bersaglio, in parole povere, non avevo azzeccato un bel nulla.
Mi ero così entusiasmata in quel negozio di oggetti decò, di cianfrusaglie retrò, che non ebbi dubbi quando sopra un pianoforte nero lucido, accanto a un candelabro d’ottone, vidi stagliarsi in tutta la sua bellezza la fontana del Bernini, scala 1/1000, porcellana tedesca certificata, tre anni di garanzia contro lo smog di Roma. SI! Quella stessa fontana che alberga giorno e notte sulla piazza dinanzi alla nostra camera da letto, e che mi alzo spesso la notte per guardarla illuminata dalle luci ammaliatrici dei lampioni anni ’30. Ma chi poteva immaginare, chi…



NONO CLASSIFICATO

Si sentiva proprio la mancanza di un altro emulatore di Bukowsky. Genio e sregolatezza (leggi:
fanfaronaggine e sciatteria) come stile di vita e di scrittura. Notare l'artida sperimentazione stilistica nell'assenza totale di uso della virgola.
Angelo Zabaglio

Eravamo

Eravamo fatti strafatti cotti amici di una serata comune in quell’ammasso di metallo che era l’auto di Giorgio che la mattina stessa era andato con i suoi alla santa messa in un giorno dove il sabato e la domenica non giocavano in casa infatti era un giorno all’interno della settimana un venerdì probabilmente che ha degli sprazzi di colori e stimoli di metalli di automobili niente male certamente era venerdì eravamo io giorgio ambra sara davide io comodo alla poltrona d’avanti che avevo fatto un incidente in motorino anzi due a distanza di pochi giorni e mi reggevo ancora in piedi e la canna girava e ci fermiamo al pub dove di solito ci fermiamo cioè  (qui mi ero impallato sul fermiamoci e rimasi fermo per non contraddire la parola) cioè dicevo all’Underground o all’Heaven e ci fermiamo.
Io sono il tipo che compra l’unità anche se dovrebbe comprare Liberazione ma quello era il giorno dopo il festival di sanremo dove c’era ospite roberto benigni quindi tenni per ricordo quell’articolo ed il poster incluso di staino che ha per bersagli bossi e berlusconi la libellula che volteggiava nell’auto la vedevo solo io chiesi alle mi amiche loro riposero che ne vedevano in giro nell’auto più precisamente ed io pensai sono cotto lesso giorgio invece è il tipo che quando caca deve controllare il suo culo con la carta igienica e verificare se ci sono feci e fece le feci ma non ne fece ed eccovi presentato giorgio che era alla guida ambra invece mentre sorride premurosa alla madre intanto si sballa trentatré ore ogni tre  giorni sara e davide stavano insieme in quel periodo ma potevano baciare anche altri o altre non era un legame forzato del resto per non far morire la coppia bisogna che ognuno dei due abbia la sua vita ed eccoci al capolinea delle presentazioni.
Quanta idiozia disse giorgio mentre cagava in bagno mi pare di aver capito così la nostra era una missione ci stavamo dimenticando del perché eravamo in quel luogo dovevamo arrivare dove ci trovavamo ma ci siamo persi nei colori e nelle allucinazioni delle droghe giorgio era più capace di me con la telecamera perciò riprese in mano la situazione ed intanto la voce era rotta mentre scriveva il suo articolo sul portatile utile per la rivista che svista quella volta che ambra si confuse e non capivamo se dalle spalle era lei o no eravamo io e giorgio che passeggiavamo con la nostra canna tra le dita e non vediamo distante una tipa e noi a gridare ambra ambra ambra ambra e non si voltava non era evidentemente ambra.
Ed il treno ci passò davanti agli occhi fermi in quella macchina è assurdo diesel è impossibile non può esistere nulla di simile che il traffico e le gomme da masticare dentro imbottigliato nelle auto e poi numeri e ritmi elettronici di telefonino informazione dalla borsa basta premere un pulsante ed il segnale senti senti dentro e buon tempo niente altro solo buon tempo in testa e nel locale quella sera un vecchio barbuto cantò un blues lento ma melodico e piacevole angeli nel liquore e nelle birre viaggiavano e vagavano bell’aria come fumo di sigaretta e mani tra mani innamorate e felici senza problemi che scherzano al non aver problemi e chi capisce comprende e questo barbuto cantore di blues strimpella una chitarra con le voci dei frequentatori dei pub e cori mistici ci accompagnavano alla nostra missione il nostro obbiettivo anche qui mi sono impallato con la musica che mi aveva rapito tra le sue onde in vortice come una dolce tornado morbido e di piume d’oca e realizzo che era il caso mettere nello stereo mettere dicevo qualche cosa di caraibico alla lontana non balli scatenanti e di gruppo ma quei brani regghe elettrici che ti fanno viaggiare magari sentire il vento che accarezza la sabbia e la solleva con la purezza della sua mano di rilassante un brano adatto a noi cioè due fatti strafatti che volevano rilassarsi in auto non superare i sessanta e fare i bravi e tacemmo di fronte alla magia di b-side un programma radiofonico di radio deejey serale e imprevedibile, può calarti dalle brache ed essere lento e trascinante dome un tango al rallentatore o trasformarti in un mostro di emozioni con la musica cattiva e veloce affascinante e veloce tanto che non possiamo prenderla ci sfuggirà sempre di mano come una saponetta o un pesce che non vuol morire tra le mani viscide o depurate dal sapone ambra puliva di solito i piatti in casa ora pranzi al ristorante una pizza, un gelato, un frappé, una qualsiasi altra cosa con piatti di plastica.
 



DECIMO E ULTIMO CLASSIFICATO

Classico esempio di plagio inconsapevole di idea altrui. Il film demenziale Top Secret è del 1984. L'autore lo ha visto e lo ha rimosso, dunque in seguito ha plagiato la gag della stazione facendone la chiave di volta di questo raccontino che non avrebbe altre virtù se non l'idea sulla quale fa perno, se fosse originale. Se il plagio volontario ha tutto il diritto di esistere e proliferare, come molti ritengono, quello involontario è un grande, immortale classico del brutto. E non solo è dietro l'angolo in ogni momento per chiunque scriva, ma ci caschiamo continuamente tutti, nessuno escluso.

Alessandro Dezi

Persino con un leggero anticipo

C’era un bel sole, quella mattina di luglio, alla stazione Roma Termini.
Giunsi al binario sedici e salii sull’intercity delle 11.40, per Milano Centrale.
Mi diressi, accaldatissimo, in una carrozza dove si trovavano già seduti una giovane mamma, col suo lentigginoso figlioletto.
Sistemai le valigie, e presi posto accanto al finestrino, allentandomi un poco il collo della camicia. Faceva veramente caldo, lì dentro.
Vedevo parte della stazione brulicare in un allegro via vai di persone, ferrovieri e bagagli, dentro l’aria estiva. Un uomo salutava dal treno, sporgendosi troppo verso l’esterno. L’altoparlante gracchiò la nostra prossima partenza, mentre la giovane mamma leggeva una rivista di moda, senza rivolgermi alcuna attenzione.
Il lentigginoso guardava fuori, affascinato.
Arrotolai le maniche della camicia, per avere un po’ di sollievo. Un breve fischio e tutto iniziò a muoversi, scorrendo sempre più velocemente lungo la banchina.
Il lentigginoso incollò naso e mento al vetro.
«Guarda mamma!», esclamò. «Non è il treno a muoversi! È la stazione!”.
«Uh, sì, certo…», rispose distrattamente la ragazza.
«Ma mamma, è vero! Noi stiamo fermi! È la stazione che si muove!», insistette.
«Certo, ti ho detto di sì. Adesso però, siediti…» disse, senza smettere di leggere.
Li osservai, in silenzio. Il lentigginoso si voltò, verso di me.
«Lo vede, signore? Noi rimaniamo fermi sul binario, ma la stazione se ne va!»
Gli sorrisi, voltandomi di lato. Mi divertivano sempre, le fantasie dei bambini…
Poi, la stazione sparì del tutto da davanti ai miei occhi. E mi accorsi, con stupore, che eravamo fermi sul serio. Anzi, per dirla tutta, non ci eravamo mai spostati, nemmeno di un millimetro. Fuori dal treno, adesso, restava un rettangolo bianco, triste e vuoto, grande esattamente come il finestrino.
Seppi solamente sette ore più tardi, dalla tv, di come Roma Termini fosse andata a schiantarsi contro Milano Centrale, persino con un leggero anticipo sul previsto.

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