martedì 23 aprile 2013

Secondo Classificato - Un biglietto per il paradiso

Per una comprensione più completa del racconto vi invitiamo a leggere, in coda, la recensione del critico letterario Frank Solitario.

Giovanni Stoto - Un biglietto per il paradiso


Le parole mi si strozzano in gola. Non riesco a trovarlo l’agogniato coraggio di dirti che ti amo da sempre. Sono vent’anni che scrivo questo discorso nella mia testa. Parole in fieri che agognano di esser dette ma che deficiano l’ardire dell’azione.
Al liceo eri la più bella, tutti ti venivano dietro come api che ronzano attorno a un fiore profumato. E mentre donavi a tutti la tua odorosa fragranza, io a distanza ti adoravo e mi rodevo dentro, incapace a posarmi sul tuo pistillo fragrante perché la timidezza mi tarpava le ali che, come carta velina al vento tempestoso di Novembre, si accartocciavano come un documento inutile gettato nel cestino dalla mano incurante di un impiegato. All’università abbiamo scelto lauree diverse. Ti vedevo poco, perché il tuo ateneo (arte, come solo arte poteva essere, considerando la bellezza marmorea che portavi in giro a rallegrare questo sporco mondo) era dall’altra parte della città, per volere di un fato avverso contro cui ho combattuto fiero com’un guerriero con la spada tratta contro il vento e il fuoco dei draghi del destino. Ma adesso sei qui davanti amme, solo un vetro a separarci. Arrivi distratta, il capo chino, le cuffie penzoloni al collo che emanano la dolce melodia dall’mp3 che hai lasciato acceso. Sarà un caso o forse scelta del destino, che ha alfine deciso di far svolgere il vento in mio favore, ma quella che, ovattata, perviene alle mie orecchie è la nostra canzone. O meglio, quella che io ho deciso essere la nostra canzone. Ma tu non lo sai.
«Un biglietto per Milano».
Neanche mi guardi, mentre affannosamente cerchi la Visa nel portafoglio.
«Prima o seconda classe?»
«Se esistesse prenderei la terza» mi rispondi tra l’ironico e l’insoddisfatto. «Qual è la differenza di prezzo?» mi chiedi.
In quel momento, come se fosse in attesa del momento giusto, il lettore musicale emette l’incipit della canzone giusta: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento...»
«La risposta te la sta dando Francesco», le dico.
«Scusa?» mi chiede.
«La canzone» le dico.
«Che canzone?» mi chiede.
«Titanic» rispondo.
«Ma io vado in treno!» risponde divertita.
E scoppiamo a ridere, a ridere così forte da far girare tutti. E il mio animo prende forza e vigore, e trovo il coraggio di dirle «...e se ti proponessi un biglietto per il paradiso? A Milano c’è la nebbia, potresti perderti». Lei mi guarda, all’improvviso seria, i suoi occhi si fanno fessura, le sue labbra serrate in una smorfia indagatrice. Non mi ha ancora riconosciuto, il che è un vantaggio. Ho la possibilità di iniziare da zero, di sfanculare i retaggi del ragazzino sfigato di un tempo. Repente, prendo un post-it, ci scrivo sopra “Biglietto di sola andata per due persone per il paradiso. Partenza immediata. Non rimborsabile” e glielo passo attraverso la fessura nel vetro. Lei lo prende, lo legge, sorride, si avvicina al vetro e ci stampa un bacio rosso come rosso è il suo rossetto di fuoco, poi un sorriso si stampa sul suo viso.
«Grazie» mi dice, poi si gira verso le poltrone d’attesa dove un giovane ricambia il suo sguardo e le chiede: «Amore, cosa c’è?» e lei risponde: «Sai, ho cambiato idea, avevi ragione tu, Milano non fa per noi, dovremmo veramente restare qui: la casa è piccola ma è l’angolo di Paradiso tutto nostro». E mentre vai via con lui mano nella mano, mi sorprendo a urlarti contro attraverso il vetro: «Credo sia troppo tardi per proporti un biglietto per andare all’Inferno vero?!»


Recensione

Quando l’io narrante ripete nelle primissime righe “agogniato” per ben due volte, (fra l’altro con quella i che urla al cielo) viene quasi da pensare a un’invocazione al fratello di sua moglie. Il linguaggio oscilla tra lo scadente e l’aulico senza alcuna necessità. La trama è veramente pessima, degna di un cantautore neomelodico sotto gli effetti di LSD.
Lo scambio di battute su De Gregori che vorrebbe far ridere ma che non fa ridere avviene nel momento più drammatico. Chi legge può legittimamente dubitare che tali cadute siano ricercate e che si tratti nel complesso di un racconto volutamente brutto.
Questo basta a far strisciare, in un contesto generale di notevole bruttezza, il dubbio della consapevolezza di fare schifo.
Avendo conosciuto poi l’autore, ogni sospetto di bruttezza-truffa è svanito: il racconto faceva autenticamente schifo e si è meritato pienamente di “agogniare” alle prime posizioni fino all’ultimo.

Frank Solitario

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