martedì 23 aprile 2013

Decimo Classificato - La mosca

Per una comprensione più completa del racconto vi invitiamo a leggere, in coda, la recensione del critico letterario Frank Solitario.

Fabio Tiracchia – La mosca


Che diavolo ci faceva una mosca morta nel mio piatto di spaghetti? Era lì, tutta nera e rattrappita, che faceva capolino tra il sugo e il parmigiano; sembrava che tenesse gli occhi chiusi e le zampette davanti erano contratte e incrociate come sul petto di un morto.
La cosa mi fece andare in bestia: avevo una fame da lupo e mi ero sognato quel piatto di pasta come un’oasi nel deserto. Inutile negare che ero anche un po’ schifato: insomma, fosse stato almeno un animale più pulito, ma una mosca… voglio dire: chissà dove si era posata… Per quanto mi arrovellassi non riuscivo a capire da dove fosse saltata fuori. Ripassai mentalmente le varie fasi della preparazione della mia pastasciutta: avevo preso la pentola pulita e avevo messo a bollire l’acqua, quindi avevo aperto un pacco nuovo di spaghetti e li avevo messi a cuocere. Ero sicuro che fin lì la bestia non avesse fatto ancora la sua comparsa: sebbene non fossi un esperto mi sembrava evidente che una mosca bollita avesse un aspetto un po’ diverso da quello dell’animale che avevo nel piatto. No, la mia mosca era sicuramente arrivata più tardi, nella fase condimento. Ma anche così la sua provenienza restava un mistero: avevo preso il sugo e il parmigiano da due barattoli sigillati che tenevo in frigorifero, quindi…

Non sapevo cosa pensare. Presi la forchetta e con una delle punte diedi un paio di colpetti alla bestia. Le si staccò un’ala ma lei non diede segno di essersene accorta: restava così, cieca immobile e rattrappita. Provai un attimo di ribrezzo. “Forse dovrei buttarla, questa pasta”, mi dissi. “Che ci vuole a cucinarne un altro piatto…” Ma non mi mossi. Una strana forza mi teneva attaccato alla sedia, un misto di fame, pigrizia e curiosità, ma non solo. C’era qualcos’altro, qualcosa di più essenziale, di più corporeo, fisico e allo stesso tempo profondo, remoto, una forza che non capivo, ma contemporaneamente mi appariva necessaria e inevitabile, come la gravità, o roba del genere. Difficilmente, scavando nel mio passato, riuscirei a trovare un momento carico di conseguenze e significato come quello in cui mangiai la mosca. Lo feci con tranquillità, come se fosse l’azione più normale di questo mondo. Sentivo solo una forte emozione. Ecco, ero emozionato. Mentre allungavo la mano verso il piatto percepivo la confusa sensazione di trovarmi di fronte a un momento chiave della mia esistenza. Avevo anche un po’ di paura, ma c’era questa forza irresistibile che si era impossessata di me, mi faceva piegare il braccio, aprire la bocca…

Chiunque mi vedesse ora mi troverebbe di sicuro molto cambiato. Molto cambiato. È difficile spiegare quello che mi è successo, non credo ci sia qualcosa a cui può essere paragonata la trasformazione che ho conosciuto da quel giorno. Credo che ciò che mi è accaduto sia un mistero, ma non passa giorno che non ringrazi dio, o chiunque ci sia al suo posto, per avermi fatto conoscere tutto questo. Ora giro nudo per casa, ho scoperto l’inutilità degli abiti e di molte altre cose. Mi masturbo molto spesso e non esco più, salvo quando ho bisogno di cibo. Allora mi avventuro per le strade, di notte, ma le mie incursioni nel mondo durano molto poco, il tempo di frugare nei cassonetti della spazzatura e torno nella mia casa buia. Qui, finalmente, mangio: mi basta poco. Mando giù quello che ho trovato tra i rifiuti, poi trovo un posto sul pavimento coperto dai resti della mia vita passata e mi metto a dormire. Qualche tempo fa ho scoperto che mangiando i miei escrementi posso diradare le uscite fino a due volte a settimana: meglio così, il vostro mondo non mi piace per niente, e mangiare le mie feci è inebriante. Poiché non ho più luce, né gas, né acqua – del resto non saprei cosa farmene – vivo in un modo semplice e appagante: da solo e al buio. Sento che mi sto ricongiungendo all’universo.



Recensione


L’incipit varrebbe un racconto quantomeno accettabile. L’idea è rivoltante quanto vanagloriosa: assumere per mimesi tramite fagocitosi le abitudini etologiche dell’insetto, superando a sinistra e a destra la metamorfosi kafkiana e la mutazione del celeberrimo e omonimo film di Cronenberg.
Tiracchia osa spingendosi a ripudiare persino il pallido e banale stratagemma di insistere sulla metamorfosi esteriore, esplicitando sin troppo le intenzioni dell’opera. Il protagonista non “diventa mosca”, si “sente mosca” (anche se gli atteggiamenti descritti sembrano a metà tra un metronotte e un clochard).
Lo stile si mantiene sempre su una sciatteria linguistica disarmante che affossa ogni possibile climax e fino all’ultimo lascia sperare in qualcosa di realmente e complessivamente brutto che non si realizza appieno.
Le chicche che hanno incendiato il pubblico: “Mangiare le mie feci è una sensazione inebriante” e “Sento che mi sto ricongiungendo all’universo”.

Frank Solitario

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