Fabio
Tiracchia – La mosca
Che diavolo
ci faceva una mosca morta nel mio piatto di spaghetti? Era lì, tutta
nera e rattrappita, che faceva capolino tra il sugo e il parmigiano;
sembrava che tenesse gli occhi chiusi e le zampette davanti erano
contratte e incrociate come sul petto di un morto.
La cosa mi fece
andare in bestia: avevo una fame da lupo e mi ero sognato quel piatto
di pasta come un’oasi nel deserto. Inutile negare che ero anche un
po’ schifato: insomma, fosse stato almeno un animale più pulito,
ma una mosca… voglio dire: chissà dove si
era posata… Per quanto mi arrovellassi non riuscivo a capire da
dove fosse saltata fuori. Ripassai mentalmente le varie fasi della
preparazione della mia pastasciutta: avevo preso la pentola pulita e
avevo messo a bollire l’acqua, quindi avevo aperto un pacco nuovo
di spaghetti e li avevo messi a cuocere. Ero sicuro che fin lì la
bestia non avesse fatto ancora la sua comparsa: sebbene non fossi un
esperto mi sembrava evidente che una mosca bollita avesse un aspetto
un po’ diverso da quello dell’animale che avevo nel piatto. No,
la mia mosca era sicuramente arrivata più tardi, nella fase
condimento. Ma anche così la sua provenienza restava un mistero:
avevo preso il sugo e il parmigiano da due barattoli sigillati che
tenevo in frigorifero, quindi…
Non sapevo
cosa pensare. Presi la forchetta e con una delle punte diedi un paio
di colpetti alla bestia. Le si staccò un’ala ma lei non diede
segno di essersene accorta: restava così, cieca immobile e
rattrappita. Provai un attimo di ribrezzo. “Forse dovrei buttarla,
questa pasta”, mi dissi. “Che ci vuole a cucinarne un altro
piatto…” Ma non mi mossi. Una strana forza mi teneva attaccato
alla sedia, un misto di fame, pigrizia e curiosità, ma non solo.
C’era qualcos’altro, qualcosa di più essenziale, di più
corporeo, fisico e allo stesso tempo profondo, remoto, una forza che
non capivo, ma contemporaneamente mi appariva necessaria e
inevitabile, come la gravità, o roba del genere. Difficilmente,
scavando nel mio passato, riuscirei a trovare un momento carico di
conseguenze e significato come quello in cui mangiai la mosca. Lo
feci con tranquillità, come se fosse l’azione più normale di
questo mondo. Sentivo solo una forte emozione. Ecco, ero emozionato.
Mentre allungavo la mano verso il piatto percepivo la confusa
sensazione di trovarmi di fronte a un momento chiave della mia
esistenza. Avevo anche un po’ di paura, ma c’era questa forza
irresistibile che si era impossessata di me, mi faceva piegare il
braccio, aprire la bocca…
Chiunque mi
vedesse ora mi troverebbe di sicuro molto cambiato. Molto cambiato. È
difficile spiegare quello che mi è successo, non credo ci sia
qualcosa a cui può essere paragonata la trasformazione che ho
conosciuto da quel giorno. Credo che ciò che mi è accaduto sia un
mistero, ma non passa giorno che non ringrazi dio, o chiunque ci sia
al suo posto, per avermi fatto conoscere tutto
questo. Ora giro nudo
per casa, ho scoperto l’inutilità degli abiti e di molte altre
cose. Mi masturbo molto spesso e non esco più, salvo quando ho
bisogno di cibo. Allora mi avventuro per le strade, di notte, ma le
mie incursioni nel mondo durano molto poco, il tempo di frugare nei
cassonetti della spazzatura e torno nella mia casa buia. Qui,
finalmente, mangio: mi basta poco. Mando giù quello che ho trovato
tra i rifiuti, poi trovo un posto sul pavimento coperto dai resti
della mia vita passata e mi metto a dormire. Qualche tempo fa ho
scoperto che mangiando i miei escrementi posso diradare le uscite
fino a due volte a settimana: meglio così, il vostro mondo non mi
piace per niente, e mangiare le mie feci è inebriante. Poiché non
ho più luce, né gas, né acqua – del resto non saprei cosa
farmene – vivo in un modo semplice e appagante: da solo e al buio.
Sento che mi sto ricongiungendo all’universo.
Recensione
L’incipit varrebbe un racconto
quantomeno accettabile. L’idea è rivoltante quanto vanagloriosa:
assumere per mimesi tramite fagocitosi le abitudini etologiche
dell’insetto, superando a sinistra e a destra la metamorfosi
kafkiana e la mutazione del celeberrimo e omonimo film di Cronenberg.
Tiracchia osa spingendosi a ripudiare persino il pallido e banale stratagemma di insistere sulla metamorfosi esteriore, esplicitando sin troppo le intenzioni dell’opera. Il protagonista non “diventa mosca”, si “sente mosca” (anche se gli atteggiamenti descritti sembrano a metà tra un metronotte e un clochard).
Lo stile si mantiene sempre su una sciatteria linguistica disarmante che affossa ogni possibile climax e fino all’ultimo lascia sperare in qualcosa di realmente e complessivamente brutto che non si realizza appieno.
Le chicche che hanno incendiato il pubblico: “Mangiare le mie feci è una sensazione inebriante” e “Sento che mi sto ricongiungendo all’universo”.
Tiracchia osa spingendosi a ripudiare persino il pallido e banale stratagemma di insistere sulla metamorfosi esteriore, esplicitando sin troppo le intenzioni dell’opera. Il protagonista non “diventa mosca”, si “sente mosca” (anche se gli atteggiamenti descritti sembrano a metà tra un metronotte e un clochard).
Lo stile si mantiene sempre su una sciatteria linguistica disarmante che affossa ogni possibile climax e fino all’ultimo lascia sperare in qualcosa di realmente e complessivamente brutto che non si realizza appieno.
Le chicche che hanno incendiato il pubblico: “Mangiare le mie feci è una sensazione inebriante” e “Sento che mi sto ricongiungendo all’universo”.
Frank Solitario
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